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Chi ricorda il sapore delle amarene?
Nei margini dei boschi si scorgono facilmente escrementi con numerosi nòccioli di amarene e ciliegie. Le volpi lasciano spesso questi efficaci messaggi odorosi, facili da notare anche visivamente, in bella evidenza su un sasso: una modalità per delimitare il loro territorio. I nòccioli dei frutti di Prunus cerasus vengono disseminati un po’ dappertutto, anche dagli uccelli ghiotti di queste drupe che, grazie al colore rosso squillante, si fanno immediatamente notare non appena mature.
Spesso teneri germogli spuntano ai piedi di alberi adulti: quando una pianta madre inizia a diventare senescente stimola la produzione di polloni che spuntano direttamente dalle radici. Le possibilità riproduttive di questo arbusto sono perciò numerose. Ciò malgrado sembra che la presenza di amareni stia diminuendo: un’essenza sempre meno conosciuta e utilizzata. È assai probabile che chi desidera mettere a dimora un albero scelga piuttosto un ciliegio (Prunus avium) all’apparenza più nobile, dai frutti più dolci, se confrontati alle amarene, aspre e acidule.
Le persone che hanno vissuto nel periodo in cui il Ticino aveva ancora una forte identità agricola mi parlano invece con nostalgia di questa pianta. Diversi anziani di Sonvico mi hanno lasciato alcune testimonianze: Arrigo si ricorda che Ra Còsta da Cioásc, a valle di uno dei maggenghi più abitati del paese, era piena di amareni. Mérichìno mi dice un po’ sconsolato che ora non ce ne sono quasi più. Weick, che aveva vissuto in paese da giovane, racconta delle amarene che raccoglievano e consegnavano al Ricòver, la casa di cura Opera Charitas, dove venivano trasformate in dessert per i scióri in convalescenza. Moltissime venivano portate al mercato a Lugano per essere vendute. Mio cugino Mauro più volte mi ha raccontato delle giornate passate, ancora alla fine degli anni Sessanta inizio anni Settanta, sugli alberi nel campo fuori casa sua a Pregassona a lato del torrente Cassone, a raccogliere amarene, che sua nonna vendeva al mercato di Lugano. Molto diffusa era la distillazione dei frutti in uno dei numerosi alambicchi un tempo presenti in tutti i villaggi.
Sulla base dei miei ricordi e dei racconti degli anziani, le amarene erano frutti strettamente legati al taglio del fieno. Questo lavoro, nella civiltà contadina prealpina incentrata prevalentemente sull’allevamento di poche bestie per ogni proprietario, ruotava attorno alla pratica della transumanza: le famiglie, principalmente le donne, i bambini e gli anziani, nei mesi estivi si trasferivano ai monti, sui maggenghi, per la produzione del foraggio e il pascolo delle bestie. Lo sfalcio principale era spesso praticato da giornalieri bergamaschi, che partivano dal loro paese a inizio primavera, risalendo il versante Sud alpino man mano che l’erba cresceva e il fieno maturava. Questi uomini si proponevano sulle piazze dei paesi per essere assunti a giornata. Pagati pochi soldi, dormivano nei fienili, mangiavano ciò che gli era offerto e bevevano vino, alle volte allungato con acqua.
Mio padre mi raccontava che i lavoratori giornalieri si presentavano sulla piazza del paese e le donne spesso sceglievano gli uomini sulla base della grandezza della falce fienaia. Più grande era ra ranza, più chi la manovrava era considerato robusto e in grado di maneggiarla velocemente. Era così possibile risparmiare sul costo del lavoro. Il taglio manuale richiedeva un lavoro preciso e accurato, era possibile perciò salvaguardare i giovani germogli delle piante considerate utili. Non appena crescevano e diventavano legnosi erano salvi: nessuno avrebbe rischiato di rovinare il delicato filo della lama tagliandoli. Oltre ai noci, preziosi per la produzione di olio, venivano risparmiate anche gli amareni. Forse anche perché la loro maturazione corrispondeva al periodo della falciagione: è facile immaginare questi lavoratori che si fermavano un attimo, accaldati, grondanti di sudore, sotto il sole estivo a inumidirsi la bocca mangiando alcune amarene, dal gusto aspro e perciò particolarmente dissetanti, raccogliendole dagli alberelli le cui fronde erano sempre a portata di mano grazie al loro naturale sviluppo ridotto.
La trasformazione più semplice delle amarene, e anche una delle poche tradizionalmente praticate di cui ho fatto esperienza, è quella di produrre ra marenáda: si mettono a bollire i frutti con acqua e un po’ di zucchero. In un attimo si ottiene un prodotto molto dissetante dal gusto deciso. La polpa al momento della bollitura si separa dai nòccioli, eliminarli avrebbe richiesto troppa attenzione e sarebbe stata una raffinatezza eccessiva in quel mondo di fatiche. Era perciò inevitabile che ognuno gestisse autonomamente la propria porzione. È facile immaginare il divertimento di noi ragazzini quando mangiavamo ra marenáda e ci ritrovavamo la bocca piena di nòccioli che ingoiavamo, ma in buona parte ci divertivamo a liberarcene in modo… creativo.
Recentemente un giovane informatore mi ha segnalato la presenza di alcune vecchie piante in una zona di Carabbia denominata Amarén. Quando sono passato a censire le piante, invece delle amarene ho trovato due ciliegi adulti e alcuni vecchi peri (e nessuno porta più la frutta al mercato). In paese abbiamo però trovato ancora chi dà valore a questi frutti aciduli: Cristina, un’altra nostra informatrice, arrivata a Carabbia da una trentina d’anni, produce regolarmente della gelatina o della confettura di amarene.
L’evoluzione di questi ultimi decenni in Ticino sono evidenti. Negli anni Sessanta anche le poche piccole aziende agricole rimaste hanno iniziato con il taglio meccanico dell’erba. L’avanzare del bosco e più tardi l’arrivo degli ungulati, che si nutrono di tutto ciò che è tenero, sommato al cambiamento degli stili di vita e dei gusti, ha lasciato ai margini l’amarena, una pianta dimenticata.
Maurizio Cerri, l’alberoteca
Leggi la scheda pomologica dedicata agli amareni





