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Una collezione di antichi castagni
A inizio novembre con le ultime castagne raccolte ho fatto la novéna, un procedimento tradizionale per conservare i frutti freschi più a lungo. Si mettono le castagne in un contenitore pieno d’acqua, quelle che vengono a galla sono bacate e si eliminano subito. Le altre si lasciano a mollo per nove giorni, sostituendo quotidianamente l’acqua. Questo processo dà luogo ad una fermentazione che determina un ambiente più acido all’interno del frutto, con un’azione antifungina. A conclusione del periodo si scolano e si conservano all’asciutto per evitare muffe. Un tempo venivano poi messe nelle foglie secche di faggio. Sottoposte a questo trattamento, le castagne si conservano poi per mesi.
Insieme alle querce e ai faggi, il castagno (Castanea sativa) appartiene alla famiglia delle Fagaceae. Questi tre “consanguinei” hanno nutrito uomini e animali per secoli con la loro generosa produzione di ghiande, faggiole e castagne. I Romani diffusero la coltivazione del castagno prima di tutto per la qualità del suo legno. Il consumo dei suoi frutti si propagò più gradualmente diventando poco prima dall’anno Mille essenziale per l’alimentazione delle popolazioni che vivevano sui rilievi e nelle zone più montagnose. Solo a partire dal XVIII secolo una serie di eventi ne diminuì l’importanza e la diffusione: il raffreddamento climatico causato dalla cosiddetta piccola era glaciale, l’arrivo di nuove colture come la patata e il mais, l’emigrazione e il miglioramento delle vie di comunicazione. L’insediamento della fabbrica di tannini a Maroggia, il secolo scorso, favorì il taglio di una quantità incredibile di castagni per l’estrazione del prodotto. Inoltre, la diffusione di alcune malattie, quali il mal dell’inchiostro, il cancro corticale e il più recente cinipide galligeno, sembrano ogni volta preannunciarci la scomparsa definitiva di questa pianta. Malgrado ciò, negli ultimi decenni si assiste ad un sentito impegno collettivo per salvare il castagno e assicurargli un futuro, sebbene il cambiamento climatico renda questo proposito assai incerto.
Il castagno rimane comunque l’albero da frutto più diffuso e rappresentativo del Ticino. Nel nostro censimento abbiamo fino ad ora privilegiato gli alberi da frutto dei giardini e delle campagne, inserendo poche piante di castagno, in quanto già oggetto di recenti studi che, nel solo comprensorio di Sonvico, hanno permesso di individuare ben 27 denominazioni per indicare gli ecotipi coltivati: Belúsciora, Magrín, Deremacch, Verdésa, Marón, Salvàdegh, Torción, Ènsed bianche, Ranghiröla, Magrinón, Orióra, San Martin, Fugascéra, Bonirö o Bonairö, Magréta, Magréta Malcantone, Tópia, Viósa o Viusa, Torcée, Piantón, Verdón, Terematt, Tamporiva, Tardiva, Rosséra, Negrèla, Torción negro. Questa importante varietà di ecotipi ci rivela come quest’albero si sia adattato alle esigenze della popolazione che lo ha selezionato. Venivano selezionati appunto in base alla diversità dei terreni su cui si coltivavano o all’utilizzo che se ne faceva, se per il legname o per il consumo dei frutti. Rispondevano anche alla necessità di consumare le castagne per più mesi all’anno (primaticce e tardive) e al tipo di consumo che se ne faceva (fresche o nella forma di farina). Tale è stato l’adattamento del castagno ai bisogni delle popolazioni, a cui è conseguito un impoverimento della sua ricchezza genetica, limitandone la sua capacità di rispondere ai cambiamenti ambientali con cui è confrontato. Il processo di adattamento però è stato reciproco: tecniche di conservazione proprio come la nóvena e infinite altre abitudini e attitudini culturali si sono generate nell’interazione umana con queste piante. Non a caso si parla della “civiltà del castagno”, un albero che ha impregnato nel profondo la vita materiale e culturale di uomini e donne.
Per non perdere completamente la conoscenza e l’esperienza con le diverse varietà un tempo coltivate in paese, il Patriziato di Sonvico ha messo a dimora gli ecotipi reperibili in una collezione a Pian Pirétt, a lato della bella selva recentemente risanata che era stata impiantata nel 1896. La selva si raggiunge passando da Madonna d’Arla e risalendo la parte terminale della collina di San Martino. Uno spazio di grande valore paesaggistico, con i castagni secolari regolarmente distanziati gli uni dagli altri. La buona penetrazione della luce favorisce la crescita dell’erba, dove ancora oggi è possibile far pascolare il bestiame. Un luogo significativo per gli allievi e le allieve delle scuole che hanno collaborato a mettere a dimora le piante e che potranno riappropriasi della conoscenza sulle vecchie varietà. È uno spazio di svago per tutti i luganesi per passare alcune ore del fine settimana all’aperto e per raccogliere le castagne in autunno.
Contributo e foto di Maurizio Cerri
Gruppo di lavoro per la mappatura delle antiche varietà di alberi da frutto sul territorio di Lugano